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Il primo attacco di panico
L’origine del primo attacco di panico, secondo alcuni, avviene all’atto della nascita.
Spesso si legge o si sente dire che l’abbandono in età precoce possa essere un fattore che predispone all’attacco di panico. Insomma, essere abbandonato accresce l’ansia di separazione.
Proviamo ad andare ancora un po’ più indietro.
Nessuno ovviamente se lo ricorda ma, cosa accade quando nasciamo? Veniamo ‘espulsi’ e separati e sperimentiamo per la prima volta il nostro primo episodio di separazione.
Prima di allora non abbiamo mai respirato e durante l’espulsione siamo rimasti senza ossigeno e privi di ogni risorsa.
Come abbiamo reagito? Il trauma (la paura) ci costringe ad aumentare il battito cardiaco (tachicardia), per respirare abbiamo avuto spasmi toracici e abbiamo provato la nostra prima (reale) sensazione di morte.
Pur non sapendo come fare, abbiamo cominciato a respirare e ad urlare.
Quell’urlo (era di vittoria o solo liberatorio?) era un urlo, non un pianto, l’ultimo gesto di una fase conclusa, il primo gesto della nostra venuta alla vita. La prima reazione all’ansia di separazione.
La nascita come causa del primo attacco di panico
Cosa abbiamo descritto? Il nostro primo attacco di panico anche se fisiologico e funzionale alla sopravvivenza e assolutamente inevitabile (con l’esclusione del parto cesareo, dove però manca sole la fase di espulsione).
Tutte quelle situazioni ove si sperimentano vissuti abbandonici, situazioni stressanti e stati molto ansiosi, potrebbero portare alla rievocazione (ovviamente inconscia) di quel momento ed essere concause di una struttura della personalità caratterizzata da sensazioni di rifiuto, sfiducia nelle proprie capacità e difficoltà a gestire ogni forma di separazione.
Le figure di attaccamento
Naturalmente tutto questo accade o non accade in funzione di ciò che succede dopo la nascita. Il comportamento delle figure di attaccamento (di cui suggerisco la lettura dell’articolo) chiarisce meglio la possibile evoluzione che può essere bella o brutta in funzione di ciò che il nostro entourage parentale è in grado di esprimere.
Quando decliniamo un soggetto con termini tipo ‘ansia di separazione’ quasi sicuramente parliamo di una persona che sente di non sapere cosa sia meglio per se, che percepisce di non aver sviluppato una piena autonomia, che tende a vedere il proprio spazio nel mondo poco ospitale; fa difficoltà a scrollarsi queste ‘pesantezze’ e fantastica la venuta di un giorno in cui tutto miracolosamente si risolve.
Queste persone coltivano l’illusione che la realtà tanto desiderata cambierà come d’incanto e l’amore a cui si aspira, arriverà così all’improvviso. In attesa di quel giorno le sensazioni di inadeguatezza, colpevolezza, etc., possono portare e pensare che solo comportandosi esattamente come vogliono gli altri, si otterrà da questi altri, la gratitudine di cui si crede di aver bisogno.
Insomma, se faccio tutto ciò che gli altri vogliono, tutti non potranno che volermi bene.
Ecco, alla base degli attacchi di panico (ma anche di altri disagi) si cela la struttura della personalità, tendenzialmente troppo rigida e quindi difficilmente modificabile, a meno di ricorrere alla psicoterapia.
Psicoterapia degli attacchi di panico
Il percorso terapeutico ha lo scopo di rivoluzionare questa staticità al fine di ripristinare quello che forse è sempre mancato: la fiducia e la stima in se stessi.
L’attacco di panico quindi, anche se fa soffrire molto, potrebbe non essere un brutto segno. La storia del neonato ce ne ha mostrato un aspetto. Il neonato soffre, ha paura ma alla fine da quella sofferenza emerge alla vita.
Quindi grazie all’attacco di panico il neonato sopravvive alla morte.
L’AdP potrebbe essere la risposta che l’inconscio fornisce al soggetto che vivendo una vita non sua, ha smesso di vivere.
Quel vissuto è stato salvifico in quel momento, perché non potrebbe esserlo anche ora? Il malessere che il panicato vive, il vicolo cieco in cui si è cacciato, può essere risolto solo grazie alla ‘scossa’ dell’AdP che ora potrà generare una rinascita non soltanto fisiologica.
In mancanza di questo vissuto (o di questa reazione forse innata), il bambino morirebbe (fisicamente) così come morirebbe (psicologicamente) l’adulto che invece di rinascere, rimarrebbe in un mondo di continue rinunce e privazioni, defraudando la propria personalità di tutta la ricchezza che il mondo emozionale è in grado di offrire.
Ecco perché l’AdP (o il DAP) che tanto spaventa perché produce disperazione, paura, senso di impotenza è anche un estremo spunto che dovrebbe spingere chi ne soffre verso la guarigione dell’anima.